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Bretagna, l’anagrafe accetta i nomi polinesiani e africani ma non quelli bretoni

Nella Capitale bretone Rennes/Roazhon puoi chiamarti N’néné, N’Guessan, Tu’iuvea o D’jessy, nomi esotici di origine polinesiana o africana ma non, ad esempio, Derch’hen, nome che affonda le proprie radici storiche ed etimologiche nella tradizione linguistica bretone. A Quimper/Kemper, antica capitale della regione storica Cornouaille/Kernev, succede la stessa cosa per il nome bretone Fañch o per il cognome basco Ibañez, anch’essi rifiutati dall’anagrafe locale.

E’ una dinamica generalizzata che sta creando attivazione sociale e campagne di sensibilizzazione da parte di associazioni culturali e movimenti politici di area indipendentista e autonomista.
Sgombriamo subito il campo da eventuali strumentalizzazioni: la mobilitazione non ha alcun tipo di accento razzista o di chiusura verso le culture d’oltremare citate che tra l’altro condividono con i bretoni una storia di colonialismo e neocolonialismo.

L’accento è posto sull’apostrofo e sulla tilde. Non si tratta di ironia. La questione verte sul fatto che le circolari della burocrazia francese non riconoscono l’alfabeto bretone, distinto da quello dell’unica Lingua ufficiale della République. Un documento diffuso nel 2014 vieta l’uso nello stato civile dei segni diacritici assenti dall’alfabeto francese.

Nel caso della famiglia di Quimper che ha scelto il nome Fañch l’anagrafe ha chiesto ai genitori di trovare un altro nome per il proprio neonato. Tuttavia il Comune, pressato dall’opinione pubblica e dall’iniziativa degli eletti locali, ha trovato il modo di aggirare le disposizioni burocratiche e ha accettato il nome facendo riferimento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che afferma che “la scelta del nome ha per i genitori un carattere intimo e affettivo e rientra quindi nella sfera privata”. Per il Comune “non c’è alcuna ragione, giuridica o umana, per privare Fañch della tilde che orna il suo nome e che non è né accessoria né banale”.

Il caso del piccolo Fañch è stato seguito dalla storica associazione Skoazell Vreizh che da decenni si occupa di prestare assistenza ai prigionieri politici, alle loro famiglie e alle persone colpite da procedimenti legali per motivi politici o culturali. L’associazione ha organizzato diverse iniziative concrete per sostenere le spese legali della famiglia e per denunciare la volontà dello Stato di far scomparire la Lingua bretone. “E’ più importante  che un bambino possa portare il nome di suo nonno o che tale nome sia scritto secondo le regole ortografiche del Francese? Che tipo di Stato è quello che impedisce di scrivere correttamente un nome bretone?”, chiede Skoazell Vreizh in un comunicato.

Il Tribunale locale ha annullato la decisione del Comune e ha stabilito in settembre che accettare la tilde “romperebbe la volontà del nostro Stato di diritto di mantenere l’unità del paese e l’uguaglianza senza distinzioni di origine”.

I genitori di Fañch hanno risposto in un comunicato che difenderanno il loro diritto a chiamare il loro bambino secondo scelte rispettose della sua persona, forti del sostegno unanime del Consiglio Municipale di Quimper, del Presidente bretone, del Consiglio Culturale bretone, di tutto il movimento culturale e associativo e dell’opinione pubblica internazionale che non riesce a capire l’ostracismo al quale sono sottoposti. “Pensiamo che non sia il nome Fañch a minacciare l’unità nazionale francese, bensì il rifiuto di riconoscere la diversità delle Lingue”, affermano i genitori.

Sul fronte del nome Derc’hen invece, in un comunicato stampa del 23 gennaio 2018 il Comune di Rennes afferma che il servizio anagrafico locale non avrebbe alcun problema ad accettare i nomi scelti dai genitori ma, trattandosi di un ufficio pubblico, deve sottostare alle decisioni dell’autorità statale. Quindi qualsiasi ortografia non conforme ai dettami della circolare del 2014 non può essere accettata. “La città di Rennes è impegnata da molto tempo nella promozione dell’uso e dell’apprendimento della Lingua bretone” e auspica che la circolare sia modificata in tempi brevi. “Saremo felici di poter registrare il nome Derc’hen”.
Da parte sua la sindaca socialista della capitale bretone Nathalie Appéré ha twittato “L’unità della Repubblica non sarà rotta a causa di un apostrofo, la circolare dev’essere aggiornata”.

Due pesi e due misure. Tuttavia c’è un’incongruenza tra quanto affermato dalle istituzioni locali e la loro azione recente: il quotidiano Ouest France, grazie all’analisi dei dati relativi ai nomi assegnati ai nati nel Comune di Rennes, ha evidenziato che dal 2014 ad oggi sono almeno quattro i nomi contenenti l’apostrofo accettati, tutti di origine africana e polinesiana. I funzionari comunali manifestano un certo imbarazzo, ammettono il fatto e cercano di spiegare che gli apostrofi d’oltremare sono stati accettati perché non cambiano la pronuncia del nome mentre l’apostrofo bretone, sommato alla lettera H, comporta una pronuncia diversa. Una motivazione che lascia quantomeno perplessi e che comunque sembra ispirata a valutazioni di merito asimmetriche. La sindaca Appéré torna sul tema e afferma che la circolare è abbastanza ambigua e che è sempre più motivata a chiedere al Ministero di Giustizia di aggiornane il testo.

Anche la politica è attivamente coinvolta in questa vicenda. Il partito autonomista UDB – Union Démocratique Bretonne ha diffuso un comunicato in cui sottolinea che per lo Stato francese non va bene chiamarsi Laorañs o Goulc’han e che il mancato riconoscimento dei segni diacritici e delle lettere dell’alfabeto bretone è in contrasto con l’articolo 57 del Codice Civile che afferma che “i nomi dei bambini sono scelti dai loro genitori”. L’UDB rimarca anche che l’unico motivo per il quale lo Stato può intervenire sulla scelta di un nome è solamente per difendere la dignità e l’interesse del bambino nel caso di nomi osceni o ridicoli.

Dal 1539 ad oggi. La vicenda è arrivata anche sulle pagine della stampa statale. Le Figaro ha pubblicato un approfondimento nel quale ricorda che se è vero che a capo di tutto c’è il principio di libertà, bisogna pur sempre difendere l’unità della Lingua francese e i diritti dei bambini. “In Francia i nomi sono scritti in Francese”, titola la testata conservatrice e dà voce all’avvocato Caroline Glon che cita un decreto del 1794 che prevede che gli atti pubblici debbano essere scritti in Lingua francese sul territorio della Repubblica. Già un’ordinanza del 1539 parla di “Lingua materna francese” come ufficiale per l’amministrazione, ed è tuttora in vigore. E’ da questo tipo di tradizione giuridica che vengono scritte le attuali circolari ministeriali.

La questione è chiaramente politica e il centralismo repubblicano fa un uso subdolo dell’ambivalente concetto di uguaglianza propagandato come universale valore egualitario ma in pratica strumento particolare di discriminazione linguistica e di acculturazione forzata.

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