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Dichiarazione d’indipendenza catalana. Improvvisazione o strategia? Astenersi frettolosi.

La vicenda della dichiarazione d’indipendenza post referendum ha creato sconcerto e delusione tra i cittadini e ha diffuso un certo senso di spaesamento tra i sostenitori internazionali dell’autodeterminazione della Catalogna. Il programma di viaggio dell’indipendenza annunciato nei mesi precedenti al referendum è sembrato tradito. E le disposizioni della Legge di Transitorietà approvata dal Parlamento catalano per spianare la strada alla Repubblica catalana sono sembrate violate.


Nella percezione popolare e nella vulgata giornalistica il meccanismo di disconnessione della Comunità Autonoma dal Regno prevedeva un susseguirsi di eventi e provvedimenti lineare e consequenziale che avrebbe condotto il popolo catalano dalle elezioni parlamentari del 27 settembre 2015 vinte dagli indipendentisti alla dichiarazione unilaterale di indipendenza passando per l’approvazione della legislazione di transizione, il voto referendario e la votazione ultima del Parlamento. Anche le dichiarazioni pubbliche dei maggiori rappresentanti della Generalitat, a dire il vero, sono state in sintonia con questa procedura teorica.

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All’interno della mai messa in dubbio strategia generale dell’indipendentismo c’è stato quindi un cambio di tattica? O, peggio, un ripensamento dettato da misteriose crisi interne? Potrebbe sembrare. Ma è realistico ipotizzare che un gruppo dirigente così determinato e coerente, così vasto e articolato ma al contempo così determinato e coeso – da tenere assieme per anni la sinistra anticapitalista e i rappresentanti dell’altissima borghesia industriale, passando per i centristi cattolici e per la sinistra progressista ed europeista – possa non aver previsto e studiato nei minimi dettagli ogni passaggio, ogni possibile reazione dello Stato e ogni necessaria risposta?

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Votarem… hem votat! Nei giorni più tesi prima del referendum i ministri catalani e lo stesso presidente Carles Puigdemont hanno ripetuto spesso il mantra che per ogni problema, per ogni ostacolo frapposto dallo Stato tra il popolo catalano e la libertà, si hanno due soluzioni. Un atteggiamento, una posizione mentale propositiva e ragionata, inesorabile nella sua determinazione ma che, sommata alla sicumera sull’effettiva realizzazione del referendum nonostante il boicottaggio dello Stato, ad alcuni critici unionisti è sembrata più sbruffoneria incosciente che sicurezza in se stessi. Eppure dal votarem (voteremo) si è passati all’hem votat (abbiamo votato). Eppure, nonostante sequestri di milioni di schede elettorali e di centinaia di urne, nonostante il clima di tensione ordito dallo Stato, seggi sigillati, redazioni perquisite, oltre 700 sindaci citati in giudizio e nonostante la repressione violenta di inermi votanti, più di due milioni di catalani si sono recati alle urne e hanno votato al 90% per il Sì. Con una percentuale di partecipazione superiore a quella di molti altri referendum o consultazioni elettorali perfettamente legali, sia in Spagna che nel mondo, ivi compreso il referendum sulla nuova Costituzione europea del febbraio 2005. E quindi, appurato che i dirigenti politici sanno quel che fanno e sanno come farlo e appurato che la loro coerenza e determinazione non sono appellabili, come possiamo spiegarci gli apparenti appuntamenti mancati o le attese apparentemente tradite? Partiamo dal presupposto che i fronti d’azione dei rappresentanti istituzionali catalani sono molteplici. C’è quello interno alla loro nazione, quello internazionale – duplice in quanto Europeo e mondiale -, e quello nei confronti dello Stato spagnolo. Ciascuno di questi àmbiti richiede un approccio personalizzato.

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I fronti interni. Dal palazzo della Generalitat il Governo non deve mai perdere di vista il mandato popolare che gli ha conferito la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari per realizzare l’indipendenza, deve fornire prova in proiezione di senso dello Stato e deve mantenere alto il livello di empatia con i cittadini e con le grandi organizzazioni civili come l’Assemblea Nazionale Catalana e l’Omnium Cultural che da anni garantiscono una mobilitazione popolare di massa tanto partecipata quanto civile e nonviolenta, anche nei momenti più duri della repressione nei quali mantenere la calma collettiva non è semplice. Senza tralasciare i complessi rapporti di forza con i partiti catalani ‘autonomici’ e con gli affluenti di Podemos: un dedalo di mosse e contromosse che fanno emergere sia l’irrimediabile unionismo sia le microfratture interne a forze come il Partito Socialista di Catalogna, scosso tra sostegno e opposizione all’intervento statale per la sospensione dell’autonomia.

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Il fronte internazionale. Il Governo deve rassicurare gli organismi internazionali, agendo con i piedi di piombo, dimostrando fattualmente di essere perennemente e oltre ad ogni limite disponibile al dialogo e a una soluzione consensuale del conflitto. E deve anche far sì che le cancellerie più vicine e sensibili al diritto all’autodeterminazione e contrarie alla repressione violenta possano esporsi senza timore di ritrovarsi a sostenere qualcosa di indifendibile; relegando se possibile in una condizione di inferiorità morale e politica Rajoy, i suoi metodi repressivi, la sua indisponibilità al dialogo, il suo schematismo legislativo all’interno del quale la giustezza di una causa non trova copertura da parte una giustizia e di una legislazione di basso livello democratico. Soprattutto se paragonate alla gestione di dinamiche simili da parte del Canada o del Regno Unito.

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Il fronte monarchico. Puigdemont e la sua maggioranza, appunto, devono infine fare fronte a quella che è stata definita come “democrazia di bassa intensità”, caratteristica del Regno di Spagna, nella quale la separazione dei poteri sembra un miraggio, nella quale i figli e i nipoti del franchismo al potere dimostrano quotidianamente di esserne degni eredi, nella quale i socialisti sembrano aver perso la bussola – dinamica simile a quella di altri Stati europei – fornendo supporto al PP e legittimando repressioni imbarazzanti e nella quale la stampa progressista sta tirando fuori il peggio di sé rasentando l’illeggibilità, epurando firme storiche eretiche rispetto alla linea editoriale, toccando fondi di demagogia, superficialità e nazionalismo unionista che neanche negli anni più duri del conflitto tra Stato ed ETA si erano prodotti. Di fronte a tutto questo dobbiamo prendere in considerazione un primo elemento di flessibilità aggiuntiva nella lettura dei comportamenti del governo catalano, concedendogli un margine di necessario scollamento di sicurezza tra gli annunci e le pratiche. Già il nemico ti ascolta, vogliamo anche dirgli tutto-tutto?

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Tra Kosovo e Slovenia. Ma c’è dell’altro. C’è un ulteriore fronte di cui spesso non teniamo conto e che invece è il più importante fra tutti. C’è il diritto internazionale. E ci sono i precedenti che fanno giurisprudenza. Se da un lato è vero che la situazione attuale è un territorio sconosciuto sia per lo Stato sia per i catalani, giacché non si è mai verificato prima un processo di disconnessione di questo tipo, è altrettanto vero che nella vita recente dell’Europa altri popoli hanno scelto, deciso e proclamato la propria Repubblica, a tutt’oggi riconosciuta pienamente da Stati, organismi internazionali e sovra statali. Teniamo a mente il caso del Kosovo nel quale la stessa comunità internazionale nelle sue varie forme militari e diplomatiche ha contribuito a creare un nuovo Stato, ma vi sono anche altri casi di nuove repubbliche riconosciute come quello della Slovenia. La cosiddetta “via slovena” all’indipendenza catalana è stata infatti citata spesso negli ultimi mesi dai politologi più acuti del raffinatissimo panorama giornalistico catalano. E il caso del Kosovo è stato spesso oggetto di analisi approfondite da parte degli opinionisti indipendentisti. Vedremo il perché, e comunque prendiamo coscienza del fatto che decisioni e passaggi realizzati dal Governo di Barcellona sono armonizzati con quanto di più simile sia richiesto dal diritto internazionale.

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Altalena d’emozioni, senza fretta. Il controverso passaggio parlamentare nel quale Puigdemont ha dapprima assunto in aula il mandato popolare del referendum per trasformare la Catalogna in nuovo Stato in forma di repubblica per sospenderne gli effetti immediatamente dopo, è stato seguito da un atto apparentemente informale al quale in quei momenti e nelle immediate ore successive pochi hanno saputo dare il giusto peso. In un’altalena di sentimenti che ha portato in pochi attimi gli indipendentisti dall’esultanza alla delusione, causata da una frase storica, da una manciata di parole di pietra che sicuramente il presidente e il suo vice Oriol Junqueras attendevano da una vita, seguita dalla sospensione degli effetti, la maggioranza dei manifestanti che seguivano la seduta sui maxischermi nei pressi del Parlamento e milioni di persone davanti alla televisione, presi da scoramento, sono defluiti in silenzio – alcuni accusando il presidente di tradimento – o hanno cambiato canale. Il pathos era crollato, la delusione aleggiava nell’aria ma, come ci spiega dalle pagine di Vilaweb.cat l’avvocato costituzionalista Agustí Carles – che fa parte della squadra giuridica della presidente del parlamento Carme Forcadell, del presidente Puigdemont e del Governo –, in quei minuti di distrazione collettiva tutti i parlamentari indipendentisti hanno sottoscritto una dichiarazione di indipendenza nell’auditorium del Parlamento che ad alcuni è sembrata un contentino senza conseguenze giuridiche organizzato con lo scopo di tenere a bada la frustrazione dei settori più intransigenti dell’indipendentismo. Alcuni opinionisti sono arrivati a sospettare un accordo sottobanco tra il Governo e i deputati del ramo catalano di Podemos, ma vedremo che così non è.

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Questione di poteri. Questa dichiarazione d’indipendenza è stata sottoscritta dai deputati indipendentisti non in quanto parlamentari bensì come rappresentanti del popolo catalano democraticamente eletti. E non è stata letta e sottoscritta da una votazione nell’aula parlamentare bensì in una sala attigua. Sembrerà strano ma è proprio ciò che è richiesto dal diritto internazionale. Non è infatti logico pretendere che i dispositivi costituzionali spagnoli o quelli autonomi dello Statuto catalano forniscano gli strumenti per realizzare una dichiarazione di indipendenza, perché semplicemente non la prevedono. Il modo giusto per farlo è attenersi ai precedenti internazionali di successo. E qui torna il Kosovo, la cui dichiarazione di indipendenza è stata riconosciuta nel 2010 dal Tribunale dell’Aia come valida in quanto non è stata realizzata all’interno di un organo – centrale o autonomo non fa differenza – dello Stato. E il Parlamento catalano, nonostante la sua lunga storia, è attualmente dipendente e regolato dalla Costituzione spagnola. Sono i legittimi rappresentanti del popolo e non i deputati in quanto tali a poter sottoscrivere una dichiarazione di indipendenza. In questo senso possono sottoscriverla anche i sindaci, gli eletti delle provincie e di qualsiasi altro ente elettivo. I più attenti alla trafila burocratica annunciata in precedenza dal governo catalano obbietteranno che la legge del referendum prescrive che la dichiarazione di indipendenza sia fatta dal Parlamento. E con un certo grado di certezza (e di tattica malizia) possiamo affermare che anche la sala dell’auditorium nella quale gli eletti hanno sottoscritto l’indipendenza fa parte del Parlamento. Comunque niente di improvvisato: la dichiarazione formale è stata organizzata e sottoscritta così come richiesto dal diritto internazionale. Ora toccherà all’aula Parlamentare concedere effettività giuridica alla dichiarazione che resta un atto politico e che proprio per questo motivo non ha ancora effetti legali. Successivamente il presidente o il governo attribuiranno alla dichiarazione anche l’esecutività.

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La chiave del diritto a decidere. La liturgia per la proclamazione della Repubblica catalana è complessa e deve fare i conti con giurisdizioni spesso confliggenti. Quello che ha valore per il diritto internazionale non ne ha per lo Stato. In questo senso la reiterata domanda che Rajoy ha rivolto a Puigdemont per fargli dire esplicitamente se la dichiarazione di indipendenza fosse stata in qualche modo fatta non era peregrina. Ma non sarà il Parlamento a votare la dichiarazione di indipendenza, perché a farlo ci ha già pensato il popolo nel referendum e la dichiarazione è stata conseguentemente firmata dai rappresentanti democratici del popolo a poche ore dalla consultazione. “Som una nació i tenim el dret de decidir” dicevano a Barcellona decine di migliaia di persone nel 2006. In quelle parole e nelle azioni successive è riassunto tutto il processo di autodeterminazione catalano. Dieci anni di lezioni di democrazia, attivismo, determinazione e coerenza. Continuiamo a imparare.

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